Che i dati fossero allarmanti già lo si sapeva: negli anni scorsi le percentuali di lettori (si parla di almeno un libro all’anno) si aggiravano attorno al 45% degli italiani (circa 26 milioni di persone). I lettori forti (12 libri o più all’anno, che sono comunque pochi) si aggirano attorno al 14%. Contro le percentuali dei nostri vicini spagnoli, francesi e tedeschi (con percentuali rispettivamente di 61%, 70% e 82% … e qui dovrebbero già partire alcune riflessioni).

Numeri inquietanti, nonostante alcuni studi, come quello della Emory University della Georgia, confermino i benefici della lettura: leggere rafforza le capacità intellettive e aiuta il lettore a definire la propria personalità.

Eppure si pubblica, si pubblica molto: circa 3,5 copie per abitanti, sui 64.000 titoli all’anno. Il paradosso è ben visibile, la letteratura accresce in un mondo non letterario dove i primi a non leggere (attenzione!) sono gli editori.

“Che senso ha fare letteratura in un mondo non letterario? Tutti questi libri, queste inconcepibili pile di libri, vengono venduti più o meno in tremila librerie. Quello che non viene venduto finisce nei negozi di libri usati, e ciò che non vende neanche lì, va al macero. Un business gigantesco, una macchina gigantesca, una truffa gigantesca.” (Michael Kruger)

Il problema, dice Kruger, è che nemmeno gli editori leggono tutti i libri che pubblicano, anche perché se li leggessero, probabilmente non li pubblicherebbero! Ironia a parte, leggere è una di quelle attività piacevoli, ma che comportano, oltre al tempo, uno sforzo superiore a quelle che utilizziamo, ad esempio, quando guardiamo la televisione (non è polemica, giuro!).

“O si legge o si pubblica!” (Michael Kruger)

Il problema è che la sopravvivenza del sistema editoriale si base proprio su libri che vendono o meno, ma che in ogni caso non lasciano grandi tracce dietro di sé, dopo poco tempo vengono messi da parte e dimenticati. Probabilmente perché le finalità culturali stanno lasciando spesso troppo spazio a quelle commerciali, ma è solo un’ipotesi.

“La logica e l’interesse effettivo per la letteratura vorrebbero che ogni opera la cui pubblicazione non appare necessaria, non venga pubblicata.” (Bernard Grasset)

Così è molto ideale e poetico, ma poco realistico, soprattutto quando ci ricordiamo che l’editoria è un’attività commerciale come qualunque altra, che le case editrici sono imprese così come lo sono tutte le altre, che ciò che conta in questi luoghi è il bilancio di fine anno e gli incassi, esattamente come avviene nelle altre società.

Gli editori probabilmente si rendono conto di tutto ciò e sono perfettamente in grado di discernere tra necessario e non necessario, tra opera ben fatta e opera mediocre, tra capolavoro e carta da macero. Ma non si fermano qui: si va oltre, si valuta anche l’economicamente redditizio, il valore commerciale, il caso editoriale.

Dovremmo, ad esempio, cominciare a divincolarci dall’egemonia dei numeri, quelli che piacciono e fanno bene alle tasche, ma meno alla cultura. E se proprio non riusciamo, possiamo addirittura accettare la mediocrità, ma senza mai andare al di sotto del valore medio di accettabilità.

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