[tratto da Postille a "Il nome della rosa”, 1983, U. Eco]

Può accadere che l’autore scriva pensando a un certo pubblico empirico, come facevano i fondatori del romanzo moderno, Richardson o Fielding o Defoe, che scrivevano per i mercanti e le loro mogli, ma scrive per il pubblico anche Joyce che pensa a un lettore ideale affetto da un’ideale insonnia. In entrambi i casi, sia che si creda di parlare a un pubblico che è lì, soldi alla mano, fuori dalla porta, sia che ci si proponga di scrivere per un lettore a venire, scrivere è costruire, attraverso il testo, il proprio modello di lettore.

Cosa vuol dire pensare a un lettore capace di superare lo scoglio penitenziale delle prime cento pagine? Significa esattamente scrivere cento pagine allo scopo di costruire un lettore adatto per quelle che seguiranno.

C’è uno scrittore che scrive solo per i posteri? No, neppure se lo afferma, perché, siccome non è Nostradamus, non può che configurarsi i posteri sul modello di ciò che sa dei contemporanei. C’è un autore che scriva per pochi lettori? Sì, se con questo si intende che il Lettore Modello che egli si configura, nelle sue previsioni, ha poche possibilità di essere impersonato dai più.

Ma anche in questo caso lo scrittore scrive con la speranza, neppur troppo segreta, che proprio il suo libro crei, e in gran numero, molti nuovi rappresentanti di questo lettore voluto e perseguito con tanta acribia artigiana, postulato, incoraggiato dal suo testo.

La differenza è se mai tra il testo che vuole produrre un lettore nuovo e quello che cerca di andare incontro ai desideri dei lettori tali quali li si trova già per la strada. In questo secondo caso abbiamo il libro scritto, costruito secondo un formulario buono per prodotti serializzati, l’autore fa una sorta di analisi di mercato, e si adegua. Che lavori per formule lo si vede sulla distanza, analizzando i vari romanzi che ha scritto, e rilevando che in tutti, cambiando i nomi, i luoghi e le fisionomie, si racconta la stessa storia. Quella che il pubbli

co già chiedeva.

Ma quando lo scrittore pianifica il nuovo, e progetta un lettore diverso, non vuole essere un analista di mercato che fa la lista delle richieste espresse, bensì un filosofo, che intuisce le trame dello Zeitgeist.

Egli vuole rivelare al proprio pubblico ciò che esso dovrebbe volere, anche se non lo sa. Egli vuole rivelare il lettore a se stesso.

Se Manzoni avesse dovuto badare a quello che il pubblico chiedeva, la formula l’aveva, il romanzo storico di ambiente medievale, con personaggi illustri, come nella tragedia greca, re e principesse (e non fa così nell’Adelchi?) e grandi e nobili passioni, e imprese guerresche, e celebrazione delle glorie italiche in un’epoca in cui l’Italia era terra di forti. Non facevano così, prima di lui, con lui e dopo di lui, tanti romanzieri storici più o meno sciagurati, dall’artigiano d’Azeglio, al focoso e lutulento Guerrazzi, all’illeggibile Cantù?

E invece cosa fa Manzoni? Sceglie il Seicento, epoca di schiavitù, e personaggi vili, e l’unico spadaccino è un fellone, di battaglie non ne racconta, e ha il coraggio di appesantire la storia con documenti e grida… E piace, piace a tutti, a dotti e a indotti, a grandi e piccini, a pinzoccheri e a mangiapreti. Perché aveva intuito che i lettori del suo tempo dovevano avere quello, anche se non lo sapevano, anche se non lo chiedevano, anche se non credevano che fosse commestibile.

E quanto lavora, di lima, sega e martello, e risciacquatura di panni, per rendere palatabile il suo prodotto. Per obbligare i lettori empirici a diventare il lettore modello che egli aveva vagheggiato.

Manzoni non scriveva per piacere al pubblico così come era, ma per creare un pubblico a cui il suo romano non potesse non piacere. E guai se non fosse piaciuto, lo vedete con quanta ipocrisia e serenità parla dei suoi venticinque lettori. Venticinque milioni, ne vuole.

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