Dobbiamo leggere Dostoevskij quando ci sentiamo a terra, quando abbiamo sofferto sino ai limiti del tollerabile e tutta la vita ci duole come un’unica piaga bruciante e cocente, quando respiriamo la disperazione e siamo morti di mille morti sconsolate. Allora, nel momento in cui – soli e paralizzati in mezzo allo squallore – volgiamo lo sguardo alla vita e non la comprendiamo nella sua splendida, selvaggia crudeltà e non ne vogliamo più sapere, allora, ecco, siamo maturi per la musica di questo terribile e magnifico poeta.

Allora, infatti, non siamo più spettatori, non siamo più giudici e degustatori, ma siamo dei poveretti in mezzo a tutti i poveri diavoli dei suoi romanzi, e soffriamo le loro pene, fissiamo anche noi, ammaliati e senza respiro, il vortice della vita, la macina instancabile della morte. E in quei momenti avvertiamo anche la musica di Dostoevskij, il suo conforto, il suo amore, e solo allora sperimentiamo il senso meraviglioso del suo terrificante e spesso così infernale mondo poetico.

Due forze ci afferrano nei suoi libri. La prima è la disperazione, l’accettazione del male, il subire, il non più opporsi alla crudele, sanguinosa durezza e problematicità della natura umana. Di questa morte bisogna morire, quest’inferno deve essere attraversato, se si vuole che anche l’altra voce del maestro, quelle celestiale, giunga fino a noi. La nuda sincerità con cui si confessa che la nostra vita umana è una cosa misera, incerta e forse disperata, è l’indispensabile premessa. Dobbiamo esserci arresi al dolore, abbandonati alla morte, il ghigno infernale della realtà nuda e cruda deve aver raggelato i nostri occhi, prima che si possa essere in grado di accogliere la profondità e la verità dell’altra, della seconda voce.

La prima voce dice di sì alla morte, di no alla speranza, rinuncia a tutti gli abbellimenti, a tutti gli eufemismi concettuali e poetici con cui siamo abituati a lasciarci mascherare i pericoli e le efferatezze dell’esistenza umana da parte di certi piacevoli scrittori. Ma la seconda voce ci indica un elemento diverso dalla morte, un’altra realtà, un’essenza differente: cioè la coscienza dell’uomo. Sia pure, tutta la vita umana, guerra e dolore, bassezza e atrocità: c’è però pur sempre qualcos’altro, la coscienza, ossia la facoltà insita nell’uomo di contrapporsi a Dio. Certo, anche la coscienza ci conduce attraverso il dolore e il terrore della morte, ci porta alla miseria e alla colpa, ma ci fa uscire dall’insopportabile solitudine dell’assurdo, ci mette in contatto col senso delle cose, con la loro essenza, con l’eternità.

[…]

Questi due messaggi li ho sentiti in Dostoevskij quando ero un buon lettore dei suoi libri, cioè nelle ore in cui il dolore e la disperazione mi avevano preparato a capirlo. C’è un artista che mi ha fatto sentire qualcosa di analogo, un musicista che non in ogni momento sono disposto ad amare e ad ascoltare, così come non sempre avrei voglia di leggere Dostoevskij. È Beethoven. Egli ha quella conoscenza della felicità, della saggezza e dell’armonia, che però non si trovano lungo facili sentieri, ma lampeggiano a tratti lungo la via che costeggia l’abisso, che non si colgono sorridendo, ma solo tra le lacrime ed esausti dal dolore.

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