“Il narratore più maledetto d’America”, come lo definisce Bukowski, il padre di tutti gli scrittori italoamericani, lo scrittore di antieroi come il protagonisti Arturo Bandini, una scrittura lineare, diretta, crudele, sagace, ironica, autobiografica, ricca di disagio etnico e sociale… tutti quegli elementi fanno di John Fante uno dei modelli per eccellenza di molti artisti e scrittori.

John Fante nasce a Denver nel 1909 da un immigrato italiano e da una casalinga americana di origini italiane; sebbene la sua infanzia sia abbastanza difficile, riesce ad ottenere il diploma e, subito dopo, inizia a lavorare, anche se in condizioni sempre precarie, senza mai stabilizzarsi, lavorando come fattorino, stivatore nelle navi, inscatolatore di cibi, l’impiegato… È a causa di questa situazione disagiata e per colpa degli assidui scontri col padre che decide di allontanarsi dalla casa paterna, trasferendosi nella grande città di Los Angeles in cerca di soddisfazioni.

Questa sì che era vita: girare, fermarsi e poi proseguire, sempre seguendo il nastro bianco che si snodava lungo la costa sinuosa, liberandosi di ogni tensione, una sigaretta dopo l’altra, e cercando invano delle risposte nell’enigmatico cielo del deserto.

Fin da subito di iscrive all’università, che dovrà però abbandonare per aiutare la madre a svolgere piccoli lavoretti, ed è in questo periodo che si avvicina a quella che sarà la sua più grande passione: la scrittura. Inizia a collaborare con alcune riviste, come ad esempio The American Mercury e The Atlantic Monthly; riesce infine a pubblicare i suoi primi racconti e a lavorare come sceneggiatore a Hollywood, lavoro frustrante, ma che gli garantisce il mantenimento.

Il suo primo romanzo, “La strada per Los Angeles”, viene pubblicato solo nel 1985, nonostante John Fante l’avesse terminato molto tempo prima; inizia quindi a lavorare sui lavori che si incentrano sul protagonista autobiografico Arturo Bandini, uno dei quali sarà il suo successo più grande, “Chiedi alla polvere”, a cui si ispira l’omonimo film uscito nelle sale cinematografiche nel 2006, con protagonista Colin Farrell.

“Ero giovane, saltavo i pasti, mi ubriacavo e mi sforzavo di diventare uno scrittore. Le mie letture andavo a farle nella biblioteca di Los Angeles, nel centro della città, ma niente di quello che leggevo aveva alcun rapporto con me, con le strade o con la gente che le percorreva […] poi, un giorno, presi un volume e capii subito di essere arrivato in porto […] Ecco finalmente uno scrittore che non aveva paura delle emozioni. Ironia e dolore erano intrecciati tra loro con straordinaria semplicità. Quando cominciai a leggere quel libro mi parve che mi fosse capitato un miracolo, grande e inatteso.” (Bukowski)

Il periodo successivo, però, coglie John Fante in una crisi narrativa, soprattutto perché la sua attenzione si focalizza su altri impegni di carattere informativo e sulla nascita dei suoi figli. Questo però non gli impedisce di pubblicare un nuovo romanzo, “Una vita piena”. In tutte le sue opere riusciamo a percepire quel costante sentimento di disagio etcnico: John Fante, infatti, era una di quelle persone chiamate WOP, ovvero “WithOut Passport”, ovvero coloro che, pur essendo nate negli USA, non venivano considerati veri statunitensi.

Ci saranno momenti di confusione e momenti di desiderio, e altri in cui la mia solitudine verrà alleviata solo dalle lacrime che, come uccellini bagnati, cadranno ad ammorbidire le mie labbra aride. Ma ci sarà consolazione e ci sarà bellezza, come l’amore di qualche fanciulla morta…

È nel 1978 che i due grandi scrittori, John Fante e Bukowski, si incontrano per la prima volta: quest’ultimo dichiara di non aver mai letto scrittore migliore di Fante, suo modello e ispiratore, per il quale giunse addirittura a minacciare il suo editore di non consegnare il nuovo manoscritto se egli non avesse consentito a mettere nuovamente in circolo le opere di Fante.

A causa del diabete, John Fante subisce una degenerazione progressiva, perdendo completamente la vista e le due gambe; l’ultimo romanzo, “Sogni di Bunker Hill”, lo detta alla moglie, ed è l’ultimo lavoro che conclude il ciclo incentrato sulla figura di Arturo Bandini.

Andavo a trovarlo in ospedale e a volte anche a casa quando lo rilasciavano per un po’. Era in un ospedale, stava morendo, cieco e con entrambe le gambe amputate; aveva il diabete. Ma andava avanti. Scrisse ancora un libro in quello stato, dettandolo a sua moglie. È stato uno scrittore fino alla fine. Mi raccontò addirittura di un’idea per il suo prossimo romanzo: la storia di una donna, campionessa di baseball. “Forza, John, scrivilo”, gli ho detto. Ma subito dopo era finita…” (Bukowski)

Muore nel 1983, a 74 anni, in una clinica di Los Angeles; numerosi sono i suoi lavori rimasti inediti, che pian paino stanno venendo alla luce, lasciandoci intravedere la grandezza di questo scrittore che non ebbe in vita il successo meritato.

Vivere era già abbastanza difficile, ma morire era un compito eroico.

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