Oggi ci trasferiamo sotto il caldo sole napoletano.

Se tendete l’orecchio riuscite a sentire qualche voce che canticchia “o sole mio”, misto a rimproveri di comare ai giovani monelli che si lanciano pietre in mezzo ai cortili.

File sterminate di case, alti palazzi fatti di infiniti corridoio sporchi e bui, i Granili, le finestre rotte chiuse da assi o coperte alla meglio da cartoni, per non far infiltrare all’interno né aria né luca; vetri opachi e lerci, che filtrano il sole e lo fanno apparire meno caldo di quello che è.

E’ questa la Napoli descritta dalla Ortese: sudicia, malsana, defunta.

Il sole, qui, è quasi spento, per molti.

Composto da cinque racconti, il libro vuole essere una descrizione oggettiva dei luoghi frequentati dalla scrittrice, ed è a causa della sua pubblicazione che la donna avrà ripercussioni in termini sociali: gli amici di Napoli, delusi e feriti dalle parole forti da lei utilizzate, recisero i rapporti.

Anna Maria tentò di giustificare più volte ciò che era uscito dalla sua penna, rilasciando diverse interviste al riguardo, anche se spesso le sue affermazioni risultarono essere contraddittorie: spesso si scusò, ma talvolta non si fece scrupoli nel dire che lei aveva semplicemente dipinto il quadro veritiero della Napoli che aveva vissuto lei stessa.

A tratti straziante, pone il lettore davanti ad uno spettacolo quasi opprimente, il sale su una piaga, ci soffoca e toglie talmente tanto il respiro che da qui si vorrebbe fuggire, ma rimaniamo inevitabilmente avviluppati, attratti dalla scorrevolezza con cui riesce a narrare, quasi indifferente, il malessere di vita delle persone.

Perché mi sento di dire che non si tratta di personaggi, ma di gente comune, vera, reale, concreta.

Persone, uomini e donne e bambini e vecchi, che hanno vissuto sulla loro pelle questi racconti, queste vicende, questi dolori strazianti in cui si perdono dignità e vita.

E quando abbiamo una visione ingenua della sofferenza, come quella che ci propone con lo sguardo quasi cecato della piccola Eugenia nel primo racconto, “Un paio d’occhiali”, il frutto di questa prospettiva è una riflessione ancora più profonda, più dolorosa, quando la piccola, indossati gli occhiali, aprendosi al mondo, finalmente, con una vista rinata, viene colta da violenti conati di vomito, una nausea terribile le sale fino alla testa provocandole giramenti di testa e forte malessere, e con una voce delicata piena di disperazione si aggrappa alla madre dicendo “Mammà, dove stiamo?”.

E basta un’affermazione malinconica, quasi premonitoria, della zia Nunziata, “Figlia mia, il mondo è meglio non vederlo che vederlo”, per spiegare tutto il racconto.

Abbiamo poi lo sguardo maturo di Anastasia Finizio, nel secondo racconto “Interno familiare”, forse troppo maturo per la sua età.

Una ragazza che è dovuta diventare subito donna, prendendosi in carico i fratelli minori, aiutando la madre a portare avanti la famiglia come una vera matrona di Napoli sa fare, a testa alta, con quella dignità che le contraddistingue.

Un’immagine forte, instancabile, che si è cucita addosso col passare del tempo, crolla velocemente al sentire il nome del suo antico innamorato.

Ad un tratto la vita le piomba addosso con tutta la sua furia, facendole tremare le gambe, instabili sotto tutto quel peso.

“Come un cavallo da tiro ha la sensazione che il suo carico cresce di minuto in minuto, e le zampe gli si piegano, ma gli occhi miti non riescono a guardare indietro, così lei non vedeva da quale parte fluisse questa enorme e inutile vita su lei, e solo sapeva questo: che doveva portarla.”

Una serie di quadretti di vita, situazioni concrete e quotidiane, che rendono frustrante e opprimente questa Napoli non bagnata dal mare, quella che si oppone alle ville borghesi accarezzate invece dalle onde che gentilmente si infrangono contro le loro facciate.

Ebbi l’impressione di stare sognando, o per lo meno di stare contemplando un disegno, di un’orrenda verità, che mi aveva soggiogata al punto da farmi confondere una rappresentazione con la vita stessa.”

Non ci dobbiamo stupire se il libro generò scandalo, ma soprattutto sofferenza negli amici che l’avevano accolta nella loro “orrenda verità”.

 

FRASI

 

  • Un sogno, era stato, non c’era più nulla. Non per questo la vita poteva dirsi peggiore. La vita… era una cosa strana, la vita. Ogni tanto sembrava di capire che fosse, e poi, tac, si dimenticava, tornava il sonno.
  • Aveva il cuore delicato come le corde di un violino, quel giorno, e a sfiorarlo suonava. Piangeva, non tanto di pietà per la defunta, che conosceva e apprezzava, quanto di dolcezza di fronte a questa vita, che si presentava così strana e profonda, quale mai l’aveva veduta, piena di sonorità ed emozione.
  • Che facevano? Dove andavano? Uscivano e rientravano nei buchi, portando grosse briciole di pane, questo facevano, avevano fatto ieri, avrebbero fatto domani, sempre… Sempre. Tanti buchi, tante formiche. E intorno, quasi invisibile nella gran luce, il mondo fatto da Dio, col vento, il sole, e laggiù il mare pulito, grande…
  • Sono pensieri di santi, figlia mia. La gioventù, oggi, non legge niente, e per questo il mondo ha cambiato strada. Tieni, te lo regalo. Ma mi devi promettere di leggerne un poco ogni sera, ora che ti sei fatta gli occhiali.
  • Come già a Forcella, non avevo visto ancora tante anime insieme, camminare o stare ferme, scontrarsi e sfuggirsi, salutarsi dalle finestre e chiamarsi dalle botteghe, insinuare il prezzo di una merce o gridare una preghiera, con la stessa voce dolce, spezzata, cantante, ma più sul filo del lamento che della decantata allegria napoletana. Veramente era cosa che meravigliava, e oscurava tutti i vostri pensieri.

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