Riprendemmo il discorso e dissi: “Noi vogliamo essere felici.” Avevo appena enunciato tale concetto che subito tutti espressero il loro accordo, come una voce sola. Ma io dissi: “Pensate che sia felice chi non possiede l’oggetto del suo desiderio?”. Tutti lo negarono. Ricominciai. “Allora, chiunque possiede ciò che vuole è felice?”, intervenne mia madre: “Se desidera e ottiene cose buone è felice, ma se desidera cose cattive, anche se le ottiene, è infelice.” E io, sorridendo pieno di gioia, le dissi: “Madre mia, sei arrivata decisamente alle vette della filosofia, forse non possiedi la conoscenza dei termini per esprimerti nella filosofia come Tullio, ma ascolta cosa dice nell’Ortensio, il testo che egli ha scritto in lode e difesa della filosofia: “Coloro che sono allenati nella dialettica, anche se non sono veri filosofi, affermano unanimemente che è felice colui che vive secondo i propri desideri. Ma questo è certamente falso, infatti, desiderare ciò che non è conveniente, genera somma infelicità. Fonte di infelicità non è tanto il non poter ottenere ciò che si desidera, ma piuttosto desiderare ciò che non è opportuno. E, infatti, il desiderio privo di ordine, procura all’uomo un male ben più grave dello stesso bene procurato per ventura.”

[…] Allora proseguii: “Finora abbiamo tutti accolto il principio che non può essere felice chi non ha ciò che desidera, e anche che non è necessariamente felice chi ottiene ciò che desidera.” E proseguii: “Concordate sul fatto che chi non è felice, è infelice?” Non si opposero a tale affermazione: “Ogni uomo che non possiede ciò che desidera è dunque infelice” conclusi. Ma poi domandai: “Che cosa però deve ottenere l’uomo per essere felice? Io credo che l’uomo debba tendere all’oggetto che è in grado di possedere, se lo desidera.” Dissero che ciò è evidente. Io incalzai: “Ma dovrebbe essere un bene non caduco, non legato alla fortuna, non condizionato dal mutare delle cose. Infatti non possiamo essere certi di possedere per tutto il tempo che vogliamo ciò che è in sé effimero e instabile.”

Tutti assentirono. Solo Trigezio obiettò: “Molti uomini accumulano e godono pienamente di beni caduchi, soggetti al mutamento, eppure questi beni sono fonte di gaudio in questa vita e a quelli non manca alcuno degli oggetti che desiderano.” Gli domandai allora: “Pensi che chi prova timore sia felice?” “No” rispose. “Dunque se può essere privato di ciò che ama, come può non temere? I beni soggetti alla fortuna e al cambiamento si possono perdere. Dunque chi li ama e li possiede non può affatto essere felice.” Ed egli non si oppose alla mia conclusione.

A quel punto intervenne mia madre: “Anche se fosse certo di non perdere i propri averi, tuttavia non potrebbe esserne sazio. E perciò è infelice in quanto è sempre nello stato di necessità.” Le chiesi allora: “Non pensi tuttavia che potrebbe essere felice se limitasse il suo desiderio avendo abbondanza di beni ed essendo pago di essi, ne godesse con misura e con gioia?” “In questo caso non sarebbe felice per il possesso dei suoi beni, ma per la moderazione del suo desiderio.” Replicai: “Benissimo, anche a questa domanda non era lecito attendersi risposta diversa da te. Non abbiamo più dubbi, dunque, che se qualcuno ha deciso di voler essere felice deve esser certo di possedere ciò che è per sempre e non può essergli sottratto dalla cattiva sorte.” Disse Licenzio: “Ormai concordiamo su tale verità.” Ma io ripresi: “Voi pensate che Dio sia eterno e non cessi mai di essere?” Rispose Licenzio: “E’ una verità tanto certa che non c’è bisogno di farne oggetto di dibattito.” E gli altri furono d’accordo su ciò. “Dunque” conclusi “chi possiede Dio è felice.

 

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