[dalla Rivista Sette, 26.06.2015]

Nel 1972 la casa editrice Einaudi pubblica “Le città invisibili”, un romanzo che Pier Paolo Pasolini non esita a classificare, tra le opere di Calvino, come “il più bello, ma bello in assoluto” (1973). Si tratta di un dialogo tra il viaggiatore Marco Polo e il conquistatore Kublai Khan: il veneziano descrive all’imperatore, in cinquantacinque racconti, una serie di città (a ciascuna viene attribuito un nome di donna, ispirato a personaggi della mitologia o della letteratura) che il mongolo non ha mai visitato.

Lasciando da parte il gioco combinatorio su cui l’autore costruisce la struttura formale del romanzo (dove la disposizione dei numeri assume una funzione determinante), altri elementi colpiscono l’attenzione: le pause segnate

dai silenzi (“difatti stavano muti, a occhi socchiusi”), lo scontro tra città reali e immaginarie, le risposte che gli spazi urbani danno alle nostre domande, l’importanza dell’ascolto (“chi m’ascolta ritiene solo le parole che aspetta”), le infinite architetture dei temi e delle parole.

E proprio nelle pagine finali, la conversazione scivola sull’inferno dei viventi. Non si tratta di “qualcosa che sarà”, ma è “l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiano stando insieme”.

Ci sono due modi “per non soffrirne”. Il primo “riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più”.

Il secondo, invece, “è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi o cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio.

Spetta solo a noi scegliere: la via dell’omologazione e della complicità (per approdare all’indifferenza) o quella dell’impegno (per cercare di far sopravvivere ciò che nell’inferno non è inferno).

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