Oggi parliamo di un racconto breve, anzi brevissimo, di uno dei fratelli Boito, il minore, Arrigo.

Appartenente, come Camillo, al movimento degli Scapigliati, per lo meno in giovane età, compone L’alfier nero nel 1867.

Queste poche pagine raccolgono in sé tutte le tematiche principali che compongono le linee guide della Scapigliatura, in particolare ritroviamo i riferimenti al dualismo (sul quale è costruito l’intero intreccio) e alla visione che si contrappone alla ratio.

 

La storia si apre con un appello al lettore, ad un leggente capace di giocare a scacchi, in grado di immaginare quelle che saranno le mosse della partita che verrà descritta.

Al posto delle comuni pedine, però, ci si dovrà raffigurare due uomini: uno vestito di bianco, dai tratti caucasici, biondo e dallo sguardo severo; un altro nero, etiope, con le labbra rigonfie e senza barba, vestito di scuro, quasi che dovesse partecipare ad un lutto.

Già dalle prime righe ci rendiamo conto di essere di fronte ad una contrapposizione netta, per ora solo di colori.

 

Ci troviamo nella sala di lettura di un albergo svizzero, dove alcune persone iniziano a discutere di un uomo arrivato da poco, un nero, Oncle Tom.

Il dialogo è manipolato da un certo Giorgio Anderssen, un bianco americano convinto dell’inferiorità dei neri, da lui chiamate “bestie”.

 

Accortosi della presenza di Oncle Tom, fino a questo momento rimasto nell’oscurità, Anderssen gli propone tutta una serie di diversivi per passare il tempo, optando infine per una partita a scacchi.

Ecco che inizia il fulcro del racconto: un gioco combattuto, un balzare incalzante tra una mossa e un’altra, tra un giocatore e l’altro, tra la visione del nero e la vista del bianco.

 

“Mutiamo campo. Veduto dal lato del negro l’aspetto della partita si rovesciava. Al sistema dell’ordine sviluppato dall’apertura dei bianchi, il negro contrapponeva il sistema del più completo disordine; mentre quegli si schierava simmetrico, questi si agglomerava confuso, quegli poneva ogni sua forza nell’equilibrio dell’offesa e della difesa, questi aumentava a ogni passo il proprio squilibrio […]”

 

Non siamo solo di fronte a due modi differenti di giocare, bensì veniamo catapultati in due visioni del mondo diverse: un ordine razionale, fatto di tattiche e ragionamenti ponderati; all’opposto un modo di procedere caotico e disordinato, fatto di tentativi e strade sbagliate, scorciatoie e vie giuste imboccate appellandosi alla fortuna.

La vista della scacchiera da parte del bianco, la visione della partita da parte del nero.

 

E pian piano comprendiamo che non ci troviamo solo all’interno di un gioco, ma stiamo prendendo parte ad una realtà più grande, una lotta per la sopravvivenza in cui l’uomo bianco, col suo fardello, tenta di sopraffare l’uomo nero, che conquista le stesse armi del suo avversario, cultura e dignità, tentando uno scacco al re, tentando uno scacco alla schiavitù della sua razza.

 

E ogni pedina che viene eliminata rappresenta uno di quegli uomini che hanno combattuto strenuamente, fino alla morte.

E ogni pezzo che avanza rappresenta una vittoria per la supremazia dell’uno o dell’altro.

E ogni pedone bianco che viene eliminato rappresenta un pezzetto di quella vendetta e di quell’orgoglio nero che prendono piede sempre più sui lisci quadrati che compongono la scacchiera.

 

La vera lotta principiava allora. A destra, a sinistra della scacchiera vedevansi già alcuni pezzi e alcune pedine messe fuori combattimento, primi trofei dei combattimenti; l’assalto lungamente minacciato irruppe in tutta la sua violenza; da una parte e dall’altra si diradavano i ranghi, un pezzo caduto ne trascinava un altro, i bianchi facevano la vendetta dei bianchi, i neri facevano la vendetta dei neri, un bianco prendeva ed era preso da un nero, un nero offendeva ed era offeso da un bianco; mai la legge del taglione non fu meglio glorificata.

 

Diventa dunque una questione di uomini contro uomini, un alfiere contro un esercito, un uomo nero contro un uomo bianco.

Oncle Tom lotta non più per difendere il re, ma per difendere se stesso, suo fratello, la sua famiglia, il suo mondo, i suoi valori.

 

La fronte di legno diventava sempre più umana, sempre più eroica, toccava quasi all’ideale, da uomo diventava idea, come da scacco era diventato uomo.

 

Come qualsiasi lotta per la sopravvivenza, alla fine abbiamo un vinto e un vincitore, uno scacco matto e un re salvo, un alfiere che trionfa sulla diagonale della sua traiettoria e un bianco re stanco che depone la corona.

Eppure non è la fine, non lo è per l’uomo debole, non lo è per l’uomo bianco né per il suo fardello.

Scrivi

La tua email non sarà pubblicata