LA VITA È BREVE: EVITIAMO PROGRAMMI TROPPO ESTESI, di Seneca Leggere - Facile Luglio 22, 2017 Silvae et alia [Lettera 101 – tratta da L’arte di vivere] Ogni giorno, ogni ora ci mostra che siamo un nulla e con qualche nuovo argomento ricorda a noi dimentichi la nostra caducità, e mentre concepiamo progetti come se fossimo eterni ci costringe a guardare alla morte. Chiedi che cosa significhi questa premessa? Tu conosci Cornelio Senecione, cavaliere romano illustre e cortese: da un’umile origine era arrivato in alto, destinato a ulteriori e facili successi. L’inizio di una carriera è più difficile che il suo sviluppo. Anche il denaro tarda molto ad arrivare, se uno è povero: alla povertà si rimane attaccati, finché non si riesce a tirarsene fuori. Senecione ormai mirava ad arricchirsi e a questo lo portavano due qualità validissime: la capacità di procurarsi il denaro e quella di conservarlo; sarebbe bastata una sola delle due a renderlo ricco. Quest’uomo molto frugale, che aveva cura tanto del patrimonio quanto del suo corpo, mi aveva fatto visita al mattino, come d’abitudine, e aveva poi assistito per l’intera giornata, fino a notte, un amico gravemente malato che giaceva a letto senza speranza di guarigione; dopo aver cenato allegramente, colpito da un male fulminante, l’angina, a stento sopravvisse fino all’alba rantolando con le vie respiratorie bloccate. È morto, dunque, pochissime ore dopo aver svolto tutte le attività proprie di un individuo sano e in forze. Quell’uomo, che faceva girare il denaro per terra e per mare, che aveva partecipato anche a pubblici appalti e non aveva tralasciato nessun tipo di guadagno, proprio quando le cose si mettevano bene, proprio quando il denaro arrivava in abbondanza, è scomparso. Innesta ora i peri, Melibeo, disponi le viti in filari. Come è insensato disporre della propria vita, se non siamo padroni neppure del domani! Come sono pazzi quelli che danno il via a progetti lontani nell’avvenire: comprerò, costruirò, darò denaro in prestito, ne riscuoterò, ricoprirò cariche, e alla fine passerò in ozio, stanco e soddisfatto, la vecchiaia. Credimi: tutto è incerto, anche per gli uomini fortunati; nessuno deve ripromettersi niente per il futuro; anche quello che abbiamo fra le mani ci sfugge e il caso tronca l’ora stessa che stringiamo. Il tempo passa secondo una legge determinata, ma a noi sconosciuta: e che mi importa se per la natura è certo quello che per me è incerto? Ci proponiamo lunghi viaggi per mare e un ritorno in patria lontano nel tempo, dopo aver vagato per lidi stranieri; imprese militari e tardive ricompense di fatiche guerresche, amministrazioni di province e avanzamenti di carriera, di carica in carica, mentre la morte ci sta accanto; e poiché non ci pensiamo mai, se non quando tocca agli altri, di tanto in tanto ci vengono messi davanti esempi della nostra mortalità, che, però, durano in noi solo quanto il nostro stupore. Ma niente è più sciocco che stupirsi che accada un giorno quanto può accadere ogni giorno. Il termine della nostra vita sta dove l’ha fissato l’inesorabile ineluttabilità del destino; ma nessuno di noi sa quanto si trovi vicino alla fine; disponiamo, perciò la nostra anima come se fossimo arrivati al momento estremo. Non rinviamo niente; chiudiamo ogni giorno il bilancio con la vita. Il difetto maggiore dell’esistenza è di essere sempre incompiuta e che sempre se ne rimanda una parte. Chi dà ogni giorno l’ultima mano alla sua vita, non ha bisogno di tempo; da questo bisogno nascono la paura e la brama del futuro che rode l’anima. Non c’è niente di più triste che chiedersi quale esito avranno gli eventi futuri; se uno si preoccupa di quanto gli resta da vivere o di come, è agitato da una paura inguaribile. Come sfuggire a questa inquietudine? In un solo modo: la nostra vita non deve protendersi all’avvenire, deve raccogliersi in se stessa; chi non è in grado di vivere il presente, è in balia del futuro. Ma quando ho pagato il debito che avevo con me stesso, quando ho ben chiaro in testa che non c’è differenza tra un giorno e un secolo, posso guardare con distacco il susseguirsi dei giorni e degli eventi futuri e pensare sorridendo al succedersi degli anni. Se uno è saldo di fronte all’incerto, non può turbarlo la varietà e l’incostanza dei casi della vita. Affrettati perciò a vivere, Lucilio mio, e i singoli giorni siano per te una vita. Chi si forma così e ogni giorno vive compiutamente la sua vita, è tranquillo: se uno vive nella speranza, si sente sfuggire anche il tempo più vicino e subentra in lui l’avidità della vita e l’infelicissima paura della morte che rende altrettanto infelice ogni cosa. Nasce da qui quel vergognosissimo voto di Mecenate che non rifiuta malattie e deformità e in ultimo il supplizio del palo, pur di continuare a vivere anche tra queste sventure: rendimi storpio di una mano, zoppo di una gamba, fammi crescere la gobba, fammi cadere i denti: purché continui a vivere, va bene; conservami la vita anche su un palo di tortura. Egli si augura un destino che sarebbe molto infelice, se si realizzasse, e pur di vivere, chiede un supplizio continuo. Lo considererei già spregevolissimo se volesse vivere fino al momento di salire al patibolo: “Storpiami pure”, dice, “purché lo spirito vitale rimanga in questo corpo senza forze e inservibile; sfigurami, purché, mostruoso e deforme, io possa vivere ancora un po’; impalami, crocifiggimi”: vale la pena comprimere la propria ferita e penzolare dalla forca con gli arti slogati, pur di rimandare la cosa più desiderabile quando si soffre: la fine dei tormenti? Val la pena di avere la vita per esalarla? Che cosa potresti augurargli se non la benevolenza degli dei? A che mirano questi versi turpemente effeminati? A che questo patto nato da una paura insensatissima? E questo mendicare così sconciamente la vita? Potresti pensare che Virgilio abbia mai recitato a Mecenate questo verso: Morire è, dunque, così triste? Egli si augura i mali più atroci e desidera prolungare e sopportare le sofferenze più terribili: che ci guadagna? Una vita più lunga naturalmente. Ma che vita è agonizzare a lungo? C’è qualcuno che preferisce consumarsi tra i tormenti, morire membro a membro ed esalare l’anima ripetutamente in uno stillicidio, invece che morire in un sol colpo? C’è qualcuno che vuole prolungare una vita fonte di tante sofferenze, attaccato a quel maledetto palo, ormai storpio, deforme, con una gobba ripugnante sulla schiena e sul petto, quando avrebbe avuto molti motivi per morire anche senza arrivare alla croce? E dimmi ora che non è un grande beneficio della natura l’ineluttabilità della morte. Molti sono pronti a fare patti ancora più vergognosi: anche a tradire un amico per vivere più a lungo, e a consegnare di persona i figli allo stupro, pur di poter vedere la luce, testimone di tanti delitti. Scuotiamoci di dosso questa smania di vivere e impariamo che non importa quando subiremo quello che dobbiamo prima o poi subire; conta vivere bene, non vivere a lungo; ma spesso il vivere bene consiste proprio nel non vivere a lungo. Addio. ~~~~ Scrivi Cancella commentoLa tua email non sarà pubblicataCommentaNome* Email* Sito Salva il mio nome, email e sito web in questo browser per la prossima volta che commento. Hai disabilitato Javascript. Per poter postare commenti, assicurati di avere Javascript abilitato e i cookies abilitati, poi ricarica la pagina. Clicca qui per istruzioni su come abilitare Javascript nel tuo browser.